Se qualche anno fa il concetto di emission trading era ancora una pratica poco utilizzata, appannaggio dei soli Stati nazionali che non coinvolgeva direttamente il mondo industriale, oggi le aziende sono chiamate a valutare attentamente il loro impatto in termini di emissioni di carbonio in atmosfera ed è dietro l’angolo una possibile legislazione che imporrà obbligatoriamente il calcolo di tale impatto e un’azione compensativa fattiva ed efficace.
Il mercato dei crediti di carbonio, istituito nell’ambito del più ampio Protocollo di Kyoto del 2005, è oggi il metodo attraverso il quale le aziende, di fronte al proprio quadro di emissioni in atmosfera, impostano una strategia compensativa che si può articolare in azioni più o meno complesse che vanno dagli investimenti dedicati, quali ad esempio progetti di forestazione o stoccaggio del carbonio, al diretto acquisto di crediti di carbonio dalle realtà che sono in una situazione di surplus.
Sostanzialmente, secondo le regole del mercato internazionale delle emissioni, le aziende che hanno accumulato crediti in positivo, non avendo utilizzato tutti i crediti autorizzati all’emissione di determinati gas a effetto serra, sono nella possibilità di vendere i propri crediti alle realtà che si trovano in difetto.
ONG e ambientalisti storcono il naso sul concetto che sta alla base di questo meccanismo e sull’efficacia ambientale del mercato delle emissioni di carbonio, distorsione del più noto concetto “chi inquina paga”, che, secondo questi ultimi, potrebbe trasformarsi nel più preoccupante assunto “paga per inquinare”. Il mercato del carbonio così rischia di ridursi ad una pratica sostanzialmente economica che poco stimola un cambiamento nella condotta dell’attività umana per la preservazione delle risorse.
Si parla a questo proposito di “Net Zero vs Real Zero” per evidenziare la distanza esistente fra la definizione data dall’IPCC (il Gruppo Intergovernativo sul Cambiamento Climatico promosso dall’ONU) secondo cui il Net zero è la situazione di uno stato in cui le emissioni di CO2 e gas a effetto serra di origine antropica sono bilanciate dalla CO2 che viene rimossa dall’uomo vs reali politiche di mitigazione che tentino di risolvere il problema alla radice, abbattendo il consumo di fonti fossili.
In questo contesto, sullo sfondo del Cop 26 e delle perplessità che hanno generato le dichiarazioni sulle stime dell’innalzamento delle temperature al 2030, al dire degli scienziati di Climate Action Tracker (CAT) ampiamente sottostimate, c’è il report di Climate Analytics specificamente sull’Italia.
Secondo i dati dello studio per rispettare gli accordi di Parigi l’Italia dovrebbe ridurre le emissioni di gas a effetto serra del 92% entro il 2030 rispetto ai livelli del 1990.
Il documento, dal titolo “Obiettivi e politiche climatiche dell’Italia nel rispetto dell’Accordo di Parigi e delle valutazioni di Equity globale”, non risparmia critiche all'Italia che, nonostante una capacità tecnologica e finanziaria al pari con le più importanti nazioni industrializzate, lamenta la mancanza di ambizione delle politiche programmatiche di attenuazione delle conseguenze sul clima che porterebbero l’Italia ad esaurire il suo carbon budget già nel 2030.
Secondo Climate Analytics,“l’attuale obiettivo dell’Italia rappresenta un livello di ambizione così basso che, se altri paesi dovessero seguirlo, porterebbe probabilmente a un riscaldamento globale senza precedenti di oltre 3°C entro la fine del secolo. Il carbon budget residuo dell’Italia (ovvero il tetto massimo di gas serra emettibili) tra il 2020 e il 2030, che risulta compatibile con il suo fair share nel perseguimento dell’obiettivo di temperatura a lungo termine dell’Accordo di Parigi, ammonta al massimo a circa 2,09 GtCO2eq. Se gli attuali livelli di emissioni dovessero continuare, già nel 2025 l’Italia esaurirebbe il suo fair share di emissioni rilasciabili nel periodo tra il 2020 e il 2030″.